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Bande latinoamericane a Milano: nascita, sviluppo e dettagli del fenomeno delle pandillas su territorio meneghino

Le chiamano Latin gangs. O “pandillas”, come vuole l’idioma parlato dalla maggior parte degli appartenenti alle bande giovanili, nel nostro Paese, di ispirazione latinoamericana. Un termine di cui talvolta, riferendosi alle gang di “latinos” di casa nostra, si è anche un po’ abusato. Già, perché le pandillas autentiche, quelle ispanoamericane, molto diffuse anche negli Stati Uniti – soprattutto nei quartieri ispanici di Chicago e New York – meritano forse qualche distinguo. Vere e proprie roccaforti del potere criminale, queste bande sono organizzazioni rigidamente strutturate e gerarchizzate, composte nella maggior parte dei casi da autentici gangster con numerosi precedenti penali, dediti allo spaccio, al contrabbando, al traffico d’armi, alla prostituzione, agli omicidi e i furti.

 

Non è un mistero che le corrispettive “filiali” italiane, diffuse perlopiù nelle metropoli settentrionali, ma anche a Roma e Napoli, negli ultimi anni siano diventate una realtà sempre più preoccupante. E’ di martedì scorso la notizia riguardante 75 ordini di custodia cautelare in carcere emessi a carico di altrettanti giovani appartenenti a 4 delle principali bande presenti sul territorio milanese: Latin King Chicago, Nieta, Trebol e Luzbel. Tra loro, vi sarebbero addirittura 18 minorenni e 4 ragazze, a dimostrazione della giovanissima età degli affiliati. Seppure l’indagine rientrasse nell’ambito di un’operazione volta a sgominare il traffico di droga proveniente dal Sudamerica, le tipologie di reato loro contestate sono molteplici. Le misure rieducative intraprese vanno dalla custodia cautelare in carcere, alla comunità.  La certezza, però, come sottolineato dal Procuratore dei Minori, Monica Frediani è che “il trattamento di intervento e di rieducazione risulta molto difficile, poiché i reati, che coinvolgono anche minori non sudamericani, sono legati alle finalità della banda. La mancanza di benefici personali in tutti gli episodi, dallo spaccio alla rapina, mette in luce la forze della gerarchia presente nelle bande e che ritrae il  modello sudamericano alla perfezione”. Il tutto, purtroppo, finisce per tradursi in un tipo di criminalità giovanile forse inedito in Italia, di certo difficile da arginare. Vi è una  forte spinta, infatti, distorta e perversa, che porta i giovani delle gang italiane ad emulare le gesta efferate dei loro “cugini” d’Oltreoceano.

 

Ma facciamo un passo indietro. E’ proprio rifacendosi ai codici e alla “letteratura” delle gang latinoamericane che, circa 30 anni fa, le pandillas italiane  hanno mosso i loro primi passi. A Genova, per la precisione, agli inizi degli anni 90, in seguito  all’arrivo nel capoluogo ligure di una folta rappresentanza di donne ecuadoregne accompagnate unicamente dai loro figli. E’ in un contesto di abbandono e solitudine che, sulla falsariga di quelle sudamericane, di cui adottano codici, regole e mitologia, sorgono le prime gang di latinos in Italia.

 

Giovani ragazzi, poco più che adolescenti – privi di una figura paterna di riferimento ed estrapolati dalla loro terra natia – ritrovano nelle pandillas le proprie radici, la propria identità, andando a formare sodalizi basati sul rispetto, l’onore e il reciproco soccorso. Un legame che, in alcuni casi, vale più del sangue.

 

Agli iniziali ecuadoregni, col tempo, si vanno ad aggiungersi  i figli di altri immigrati  provenienti da El Salvador, dal Perù, dall’Uruguay, Portorico e Repubblica Dominicana.  Ma non solo centro e Sudamerica: tra i membri  delle gang fanno la loro apparizione anche i primi immigrati slavi, asiatici e perfino nordafricani. Sono i cosiddetti figli della generazione 1.5, i giovani nati all’estero ma condotti nel Paese ospite prima dei 12 anni.

 

Quello genovese diventa subito un modello da esportazione. Dal capoluogo ligure infatti, nel corso degli anni ’90, il contagio alle altre città è  rapido e irrefrenabile. E il fenomeno non può mancare di raggiungere Milano. Proprio all’ombra della Madonnina, le principali pandillas mettono le proprie radici, fino a diventare, col tempo, le più agguerrite del nostro Paese.

 

Nella nostra città e nell’hinterland  se ne contano almeno 15, per un totale di circa 2.500 affiliati, tutti giovanissimi, di età compresa tra i 15 e i 26-28 anni. Ad ognuna di esse spetta il proprio “territorio” di competenza. Le tre gang ecuadoriane “Flow“, “Luzbel” e “Forever” e che hanno il controllo di Sesto San Giovanni, Monza e il Parco Trotter, fanno parte, insieme ai dominicani “Trinitarios” della più vasta  “Latin Kings New York“. I “Latin Kings”, nati a Chicago nel 1940 a sostegno degli immigrati ispanici negli Stati Uniti, sono una delle gang più diffuse e note al mondo. A Milano, coadiuvata dai “Latin King Chicago”, supervisiona sull’ambitissimo Duomo. Proprio la zona più centrale della città è loro contesa dai salvadoregni di “Mara Salvatrucha 13” (o Ms-13), una delle pandillas più violente, tanto per non  sfigurare al cospetto della “Ms-13” statunitense che, in quanto a pericolosità, laggiù è considerata seconda solo alla mafia.

 

La “Ms-13” e la “fazione separatista” della “Ms-18”, a loro volta, stazionano nella zona nord di Milano, tra via Certosa e Maciachini. Largo Marinai d’Italia e la zona attorno a corso XXII Marzo, invece, è appannaggio dei Neta. In questa Milano vandalizzata, c’è spazio anche per i Bloodz, delle new entry, il cui “territorio di caccia” si trova tra  il Parco Lambro e San Siro. Tra loro,  ragazzi extracomunitari del Maghreb, ma anche provenienti dai paesi dell’Est, nonché qualche italiano.

 

Per accedere ad una di queste bande spesso si passa per riti d’iniziazione molto violenti. Come documentato dai filmati registrati nel corso delle indagini della Polizia di Stato, si passa dalle percosse a veri e propri pestaggi brutali, finalizzati a mettere a dura prova la soglia di sopportazione del dolore e le reali motivazioni del candidato di turno.

 

Tutte le bande hanno un proprio “Rey”, il Re. E come per ogni Re che si rispetti, vi è anche una “Queen”, la regina, la compagna di colui a cui tutti sono sottomessi. Il Rey stabilisce gli obiettivi, ordina i pestaggi, le ritorsioni. Chi sgarra, paga. Ma è anche misericordioso: aiuta chi ha bisogno, sostiene i meritevoli.

 

Il look, in puro stile “ecuayorka“, è mutuato dalle icone della musica hip-hop: bandane di diversi colori a seconda della banda di appartenenza, vestiti oversize, grosse catene d’oro e vari ciondoli raffiguranti croci. A completare il tutto, numerosi tatuaggi su ogni parte del corpo e raffiguranti i simboli e i feticci delle varie gang di appartenenza: una lacrima all’angolo dell’occhio ad indicare un omicidio commesso; il nome della banda sul ventre o dietro la schiena; il nome di un compagno morto sulle nocche della mano.

 

Quello delle pandillas, a Milano, sottoprodotto culturale dell’immigrazione, è un fenomeno in continua evoluzione. Gli affiliati – dediti allo spaccio, alle rapine e a al controllo del territorio milanese – sono sempre più numerosi. Ci si “arruola” per sfuggire alla mancanza di prospettive per il futuro o il semplice gusto di appartenere ad una banda. Feste, sesso, droga e alcool sono attrattive irresistibili per giovani ragazzi il cui unico esempio, spesso, è quello dei propri genitori i quali, per sbarcare il lunario, sono costretti a lavorare 12 ore al giorno. E loro, i nuovi “piccoli” padroni di Milano, non ci stanno.

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S.P.

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